domenica 22 aprile 2012

Gli anni del Big Bang


Siamo nell'epoca che segue la rifondazione post-bellica, si vive tra i due blocchi, il terziario è cresciuto notevolmente (nel 1956 negli Stati Uniti gli addetti a questo settore superano i lavoratori dell'industri e dell'agricoltura sommati assieme), l'uomo arriva sulla Luna. La società è diventata di massa, ne conseguono nuove opportunità e nuovi problemi.
L'arte si interessa all'attualità, volge lo sguardo al quotidiano, non più con l'occhio neorealista dell'immediato dopoguerra, ma “pop”. L'artista riusa gli oggetti popolari (ad esempio, un barattolo di zuppa) per sovvertire le regole del gusto, esaltando a volte la loro bruttezza kitsch.
Gli architetti del tempo non rimangono estranei al cambiamento. Per l'architettura inizia l'era “anti-funzionalista”. In Gran Bretagna, nel 1961, nasce la rivista “Archigram” che propone idee nuove usando la tecnica del “collage”, ibridazione di generi: fumetto, pubblicità, cinema e televisione. Rappresentano lo slancio ottimista delle nuove possibilità della società contemporanea. In Giappone, i Metabolisti, si concentrano sulle continue mutazioni delle metropoli. Si esplorano nuovi temi e diversi approcci alle città e alle parti che la compongono.
Si arriva quindi al vero “Big Bang”. L'architettura perde il suo carattere disciplinare tradizionale per lasciarsi influenzare e motivare dagli elementi più disparati. Può essere attratta dalla scienze esatte o dalle discipline artistiche, da ragionamenti economici o filosofici. La storia diventa un importante attrattore, “della storia non si può fare a meno”, è un campo di cui l'architetto deve tener conto e a cui attingere per esprimere la loro eccentricità e singolarità. Viene negato il metodo “tabula rasa” dei funzionalisti che ragionando in termini industriali non avevano bisogno di un passato, tant'è che al Bauhaus non si insegnava la storia dell'arte. Dalle analisi delle grandi architetture del passato si desumono delle leggi con cui strutturare nuovi progetti o con le quali dialogare.
Da questa dialettica emergono anche delle esperienze personali, figure singolari che approfondiscono dei loro concetti elaborando una loro personale architettura, è il caso di Paolo Soleri e della sua “Arcologia” (architettura e ecologia) o di Giovanni Michelucci. In questo contesto è importante lo studio sul paesaggio metropolitano, del pittore Constant Nieuwenhuys con la sua “New Babylon”.
Il problema maggiore emerso dall'analisi dell'opera post-bellica è la pianificazione urbana. A distanza di più di un decennio dalla costruzione dei nuovi quartieri e delle periferie, sono evidenti i difetti degli interventi basati sui i principi dei CIAM e della Carta di Atene. Le città pensate come assemblaggio di macchine perfette, ossia le abitazioni funzionaliste, non riescono a sopportare le esigenze di una società in continua trasformazione. É proprio Constant che scrive sulle città:

“La mancanza totale di soluzioni ludiche nell'organizzazione della vita sociale impedisce all'urbanistica di elevarsi al livello della creazione, e l'aspetto squallido e sterile della maggior parte dei nuovi quartieri ne è un'atroce testimonianza”.

Le città non possono più essere ragionate solo in termini quantitativi, si deve progettare per l'Homo Lundens (dal titolo del libro di J. Huizinga), ossia l'uomo del tempo libero.
La prima critica alla Carta d'Atene è di non aver osato, i progetti non erano abbastanza forti, non erano estremi. Si pensano quindi a strutture d'impatto che si pongano in relazione/contrasto con il paesaggio. Grandi edifici che prediligono il cemento armato di gusto brutalista. Sono le cosiddette “magastrutture”. Organismi basati sulla sezione a galleria o della gradinata, nascono gli streetdecks. Le più famose sono: il Corviale di Roma (1972-79) , Forte Quezzi di Genova (1956-68), Alexadra Road House di Londra (1968-72). Questo estremismo risulta inefficace poiché il risultato è un totale “scollamento” tra gli edifici e lo spazio urbano, ed inoltre portano alla luce il fallimento di una logica industriale nei confronti di situazioni complesse.
Ci si interroga quindi su quale sia il modo di vivere nelle città, le relazioni tra esistente e preesistente, quali siano le ricadute psicosociali delle scelte progettuali. Smithson nel 1982, riassume così questa riflessione:

 “L'architettura non offre semplicemente lo sondo per le relazioni esistenti, ma le può creare. É una forza attiva della vita stessa. Non è più sufficiente “ fare degli edifici”, dobbiamo crearli in modo tale che diano significato allo spazio attorno ad essi nel contesto dell'intera cominità”.

Si progetta prendendo in considerazione molti parametri, come ad esempio l'orografia, che Giancarlo de Carlo usa per il suo collegio universitario di Urbino o il Siedlungen Halen a Berna dell'Atelier 5. Si osserva il tessuto e quindi il contesto. Un edifici non viene più considerato un vassoio su cui poggiare un volume puro. Si arriva al concetto di “scena urbana” e alla definizione dello spazio pubblico. Aldo Rossi scrive “l'architettura della città”, ogni architettura è di per se stessa una prefigurazione di un fatto urbano. Ogni architettura è forma indipendentemente dalla funzione.

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